Turismo: scenari, identità e infrastrutture. Intervista a Umberto Curti

È uscito l’ultimo lavoro di Umberto Curti, Libro bianco del turismo esperienziale e food&crafts, prospettive (in Liguria) per territori, cultura, imprese, Marco Sabatelli Editore, dic. 2018.

Lo abbiamo intervistato a Savona in occasione di “Citrus – Festival degli agrumi”.

D. Leggendo il libro si sentono tante competenze tra loro diverse, l’enogastronomia, la storia economica della cultura materiale e dell’alimentazione, l’urbanistica, il marketing e così via (e ne ho sicuramente dimenticate…). Un complesso di saperi posto al servizio di quello turistico. Certo, il libro ci dà anche una bella visione di come interconnettere questi saperi per migliorare il posizionamento di una destinazione. Fatto non secondario. Ma quello che vorrei chiederti è legato invece alla tua passione. Perché tra le righe del libro affiora questa che chiamerei passione-turismo, quella che ti fa aprire molte parentesi “appassionate”, appunto, all’interno dei capitoli, poi – per la verità – sempre chiuse, e ti fa condurre il lettore su e giù per la sterminata galassia-turismo. E allora…ci racconti come è nata questa tua passione per il turismo?

R. Dopo una formazione di tipo umanistico, ho “debuttato” professionalmente nel marketing, disciplina che tempo dopo – al momento dell’incontro con Luisa Puppo – ha prodotto, correva l’anno domini 2000, la nascita di Welcome Management, società di consulenza (marketing e formazione) con cui ho cominciato ad operare sul territorio, in àmbito turistico ed enogastronomico, ovvero in settori che, antropologicamente, consentono approcci e contaminazioni innumerevoli. In Liguria vi era, e vi è, molto lavoro da fare, essa è il mio àmbito di specializzazione ed una terra che adoro, e quanto alla mia passione essa si conferma tuttora anche umanistica nel senso che questo “Libro Bianco” è il mio sedicesimo lavoro (contiene fra l’altro una enorme bibliografia), e come sai sono anche autore di www.ligucibario.com, il più ampio “alfabeto del gusto” dell’enogastronomia ligure.

D. Standardizzare l’offerta turistica significa – inevitabilmente – migliorare la qualità, fruibilità e comprensibilità del servizio offerto. La fruibilità piena e serena (in tranquillità) di uno specifico servizio turistico si basa soprattutto su un’enciclopedia condivisa fra l’emittente (erogatore) del servizio (cioè l’offerta) e il ricevente (il fruitore, la domanda). La qualità percepita è sempre un touch point tra turista (domanda) e destinazione (offerta), sulla base di un galateo di offrire-ricevere ospitalità che può essere più o meno comune ai due attori. La globalizzazione dell’informazione e delle conoscenze ha via via sempre più uniformato le pratiche dell’ospitalità su un “galateo” standardizzato ad un grado mediano/occidentale applicabile a ogni latitudine/longitudine (l’esatto opposto dell’esperienza distintiva). Il turista – oggi – sembra molto motivato, invece, a trovare nel suo retroterra psicologico, e nel cambio epocale di paradigma culturale cui abbiamo assistito negli ultimi 20 anni, le ragioni minime sufficienti per rinunciare (forse? almeno in parte?) alle “commodities” di un’ospitalità facile da interagire e replicare. Anche in questo sta la ricerca della “verità” del territorio tipica della nuova figura del turista (sempre più viaggiatore) contemporaneo. Intanto: è così, Umberto? E se sì…la domanda allora è: come coniugare gli standard dell’accoglienza (aggiungo internazionale) che fanno realmente di un luogo una destinazione turistica compiuta, con la “verità” di quel posto che è- direi – “identità” e specificità (specialità): Genius loci, insomma. C’è un giusto mix?

R. La domanda implicherebbe un’ampia riflessione. In sintesi, non solo oggi molti turismi sono interessati ad un “come” (attività, esperienze, emozioni, relazioni…) più che ad un mero “dove”, ciò che purtroppo rende “sostituibili” molte destinazioni, ma inoltre tali turismi sovente desiderano potersi già prefigurare online quel che acquisteranno e vivranno. Io, che pure adoro i cosiddetti entroterra e le culture rurali, non pratico quei misoneismi demagogici che predicherebbero un ritorno all’economia del baratto, e in tutto il mio “Libro Bianco” lascio intendere, con argomentazioni esemplificative e casi-studio, che tradizione e innovazione non confliggono tra loro, e debbono anzi assurgere a diade vincente. Occorre tuttavia che il Genius loci (e in prospettiva il terroir che si eleva a brand) trovi adeguata rappresentazione, e purtroppo molte microimprese a gestione famigliare scontano “inevitabili” ritardi in termini di marketing e management. Mi spiace peraltro affermare che la mancata conoscenza delle lingue straniere, la mediocre capacità di storytelling e l’assenza sul web e sui social (gap cui qualche buon corso di formazione porrebbe rimedio!) decreteranno via via la scomparsa di molte attività dal mercato della domanda.

D. Non si possono realizzare le infrastrutture per raggiungere più facilmente una destinazione, o – ugualmente – attivare i servizi di trasporto o implementare quelli già esistenti (e rivolti ai residenti) per collegarla in modo migliore con i grandi snodi delle reti di comunicazione se manca la domanda, se mancano – cioè – i flussi turistici minimi sufficienti per rendere redditizio, o, quanto meno non antieconomico il nuovo servizio. Tuttavia, se manca il servizio di collegamento stabile, comodo e facilmente fruibile, difficilmente riuscirà mai a strutturarsi un altrettanto stabile flusso di domanda. Il gatto si morde la coda? Da dove partire, allora, dal prodotto-servizio (offerta) o dalla promozione? Non si tratta – forse – di innescare un processo che non può che essere lungo. Al progressivo aumentare della domanda aumenteranno in modo direttamente proporzionale i servizi turistici (offerta) ad essa dedicati. Ma la scintilla di partenza? Il pubblico, ancora?

R. Quando, 25 anni or sono, partecipavo in qualità di uditore (per formarmi ed aggiornarmi) ai primi convegni di segno turistico, di solito emergevano circa la Liguria 3 criticità: una mancata integrazione costa-entroterra (io continuerò a chiamare l’entroterra “entroterra” e non “riviera verde”), una quanto mai difettiva “destagionalizzazione” (con tassi occupazione camere a picchi balneari e crolli invernali) e una cultura dell’accoglienza che avrebbe dovuto diventare più strategica e sistemica. Naturalmente, la Liguria sconta una crisi riguardante l’intero sistema Paese (fornisco qui solo un dato nazionale, 166mila imprese artigiane chiuse in 10 anni), tuttavia occorrerebbe un ragionamento operativo finalizzato proprio a convogliare i turismi verso aree meno “immediate” (oggi sul 10% del territorio – ovvero la costa – insistono il 90% delle economie), a promuovere una Liguria meravigliosissima anche fuori stagione, e ad incentivare forme di ospitalità che favorissero il networking locale. Presumo inoltre che i maggiori Comuni a valenza turistica dovrebbero dotarsi di efficaci piani di marketing, e riservare maggiore attenzione anche ai propri siti web, in genere poco attrattivi e poco aggiornati. Capaci manager turistici potrebbero infine focalizzare ulteriori product, la via Aurelia, i percorsi dell’artigianato e della cultura materiale (dalle sedie chiavarine alle ceramiche albisolesi), il vastissimo patrimonio archeologico da Luni ai Balzi Rossi (attualmente assente o quasi dai radar?). Non è semplice, ma di certo migliorerebbe l’attuale quadro complessivo, che – si badi – non è negativo, e va anche sottolineato come Genova e la Liguria abbiano saputo reagire prima al crollo del viadotto Morandi e poi alla spaventosa mareggiata, ma negli ultimi anni la “ripresa” col segno + ha in parte beneficiato dell’uscita di scena (temporanea) di alcune mete competitor, penalizzate da guerre e terrorismi. Cos’avverrà quando rientreranno in gioco?

D. Nel 2001 la nascita dei SISTEMI TURISTICI LOCALI. Ci racconti come erano pensati e organizzati e cosa non ha funzionato? A che punto siamo oggi, invece, con le D.M.O.?

R. Confesso che quando la Legge Quadro 135/01 sostituì la 217/83 fui tra coloro che nutrirono grandi speranze circa il famoso articolo 5, quello che specificamente prevedeva concertazioni e progetti partecipati dai vari players. Malauguratamente, i sistemi turistici locali (fatta qualche eccezione) sono stati la classica montagna che partorisce il topolino (da quanto tempo ne dibattiamo? E tuttavia nel turismo un decennio può già costituire un’era geologica). Anche taluni itinerari di prodotto si sono rivelati poco più che un collage di luoghi messi in fila unendo punti, ma carenti quanto ad infrastrutture, servizi… Sovente, il concetto di “rete”, di cooperazione pubblico-privata, di team working (in un Paese caratterizzato da un’infinità di enti) si scontra con l’individualismo dei soggetti, delle corporazioni, degli organismi che – per abito mentale o per rendita di posizione – non intendono abdicare ai propri “conservatorismi”… Forse siamo un Paese intrinsecamente anarchico, e/o tradizionalista, ma basterebbe la lettura di “Ultimi”, il magnifico pamphlet di Antonio Galdo (ed. Einaudi, 2016), per realizzare quanto tale nostro DNA rischi d’esser sempre più nocivo, nell’attuale competizione. Temo che il turismo sia tuttora in parte un conosciutissimo sconosciuto, e talvolta finisca con l’occuparsene chi non ha – in concreto – alcun “titolo” per farlo.

D. “Esiste una naturale relazione tra territorio, clima e produzione alimentare. La combinazione irripetibile di questi fattori influenza la tradizione gastronomica di un territorio e la sua evoluzione, rendendola così unica e riconoscibile” (Hughes, Food tourism and Scottish heritage, in Leslie – a cura di – Tourism and Leisure-culture, Heritage and partecipation, LSA, Brighton, 1995, da p. 109, cit. da Umberto Curti, Ibidem, p. 161.). Come fare a combinare questa relazione nell’offerta turistica?

R. Anzitutto, mi verrebbe da dire, prendendo coscienza dei rischi incombenti (in un Paese che era primo nella classifica internazionale degli arrivi ed oggi è ben più in basso). Mi limito ad una segnalazione che – fra molte altre – presenzia il mio libro: gli ultimi 100 anni hanno cancellato nel mondo il 75% dell’agro–biodiversità cui l’umanità era giunta domesticando le piante e gli animali nei 15 millenni precedenti (di fatto, dall’esordio dell’attività agricola). Con tale, spaventoso ritmo, a metà del XXII secolo non resterebbero/resteranno che macerie. Viceversa, wildlife stays wildilife pays, la natura ove si perpetua rende anche economicamente, e la Liguria stessa è un “habitat” di foreste, viticoltura, uliveti, erbe aromatiche, prodotti di nicchia, arte bianca… Qualora dunque la mediterraneità agroalimentare non si volga compiutamente ad un’opera di tutela e di valorizzazione (e nella mia visione, di fatto, le due finalità coincidono), rischieremo convegni nei quali i relatori – me compreso? – si parleranno addosso mentre il “mondo”, fuori, sconterà ben altre dinamiche, sempre più dominato internazionalmente dai profitti oligopolistici.

Grazie, Federico, dell’attenzione che hai riservato al mio lavoro.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER